Le espressioni idiomatiche sono il ritratto di un popolo: custodiscono curiosità e singolari aneddoti. Scopriamo insieme quali!

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In generale, i modi di dire sono il sale di una lingua e rappresentano il patrimonio culturale di un popolo. Nelle espressioni idiomatiche italiane, chiaramente, il discorso è analogo. Difficilmente sono traducibili letteralmente da una lingua all’altra, se non adattandole e localizzandone il contenuto al contesto del Paese in questione. Sono lo specchio della storia, delle tradizioni e della mentalità tipiche di una nazione. Nascono dall’osservazione della realtà e della natura (ad esempio, fanno riferimento agli animali), sono collegati a particolari eventi storici o aneddoti, e così via.

Molte espressioni, invece, sono legate al cibo, ai numeri, alle parti del corpo, a personaggi famosi o a città importanti (nel nostro caso, vedremo a breve quale). La varietà e la ricchezza delle locuzioni italiane richiederebbe un trattato, ma non è la sede opportuna, né riusciremmo a racchiudere tutto in un articolo. Ci soffermeremo ad analizzare non tanto il significato ma l’origine di alcune “formule” davvero singolari, nonché a fornire dei simpatici esempi pratici. Mettetevi comodi e godetevi la nostra top 10.

10. Pagare o costare due lire

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L'espressione «pagare due lire» o «costare due lire» indica qualcosa di veramente economico. Qui si fa riferimento alla lira, la valuta italiana sostituita dall'euro il 1° gennaio 2002. Il passaggio alla moneta unica europea ha causato un forte e generale aumento dei prezzi per cui, sicuramente, gli italiani rimpiangono ancora la loro cara vecchia e amata moneta nazionale.  

9. Tutte le strade portano a Roma

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Questo proverbio, appartenente all’intera cultura popolare italiana, nasce dal fatto che i Romani idearono e realizzarono un sistema stradale a dir poco efficiente. Tradotto dal latino «Omnes viae Romam ducunt», significa che il suddetto assetto era tale da consentire di raggiungere la Capitale da tutti i luoghi. Per ragioni economico-commerciali, belliche o politiche, queste vie hanno consentito lo sviluppo della civiltà romana nel mondo. Ancora oggi, le strade consolari dell’Antica Roma costituiscono la base della rete viaria italiana. L’Aurelia, la Salaria, la Cassia, la Flaminia, l’Appia sono solo alcune delle principali arterie. Oltre alla facilità di raggiungere Roma da ogni punto, il detto indica che qualunque decisione si prenda, essa ci porterà comunque alla stessa soluzione o nella stessa direzione. 

8. Abbiamo fatto 30, facciamo 31

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Statua di Papa Leone X di Baccio Bandinelli, Palazzo Vecchio - Firenze.

«Abbiamo fatto 30, facciamo 31» è un detto dall’origine antichissima. Sembrerebbe risalire al 1517 quando papa Leone X nominò 30 cardinali. Resosi conto di aver dimenticato un porporato suo amico, decise di inserirlo nella lista arrivando, quindi a 31. Fino al 1946, il concistoro registrò il record per il maggior numero di nomine cardinalizie di tutta la storia. I vecchi cardinali si opposero strenuamente ma il Pontefice replicò: «Tanto è 30 che 31». Nel corso dei secoli, l’espressione ha subito diverse modifiche per giungere alla formula che conosciamo.

Quanto al significato, il detto equivale a "osare oltre" o "sforzarsi ulteriormente". Il suo utilizzo è polivalente ed universale, in quanto è applicabile ad ogni ambito o situazione. Esempio: immaginate di essere a Roma e, dopo un lungo ed interessante itinerario giornaliero, vi trovate in zona Circo Massimo. Siete stanchi, vorreste rientrare in albergo a rilassarvi. Ormai ci siete: avete fatto 30, fate 31. Non potete perdervi la vicina Bocca della Verità

7. Andare a Roma e non vedere il Papa

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La locuzione trae origine dall’usanza medievale di recarsi a Roma per vedere il Papa, affrontando viaggi lunghi e disagiati da ogni angolo del globo. Dunque, se «vai a Roma e non vedi il Papa» vuol dire che non hai raggiunto l’obiettivo. Ancora meglio, significa non che non hai colto l’essenza e l’importanza di qualcosa, intraprendendo un’azione e completandola solo parzialmente. Non crediamo ci sia miglior esempio per spiegare meglio il detto se non il detto stesso che, eloquente ed efficace, parla da solo. 

6. Mettere la mano sul fuoco

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Quando si è profondamente convinti e sicuri di qualcosa, allora ci si può «mettere la mano sul fuoco» . Al contrario, se non sei sicuro di qualcosa, la mano sul fuoco non la metti. Ma come si è arrivati a questo famoso predicato? Secondo alcune ipotesi, in epoca medievale vi era la consuetudine di mettere la mano sul fuoco per elevare un’azione compiuta conferendogli il valore di giudizio divino.

Un’altra versione, senza dubbio la più verosimile e affascinante dal punto di vista del significato, va ricercata nella storia. Siamo nel 508 a.C. e Roma è assediata dagli Etruschi. Si narra che Gaio Muzio Cordo, vista la drammatica situazione in cui versa la Capitale, tenta di uccidere il re Porsenna. Tuttavia, fallisce nell’obiettivo, uccidendo per errore un’altra persona. Per punirsi, mette la sua mano destra sul Fuoco dei sacrifici fino a che le fiamme non la consumano totalmente.

Catturato e portato al cospetto del sovrano etrusco, afferma: «Volevo uccidere te. La mia mano ha errato e ora la punisco per questo imperdonabile errore». Porsenna, meravigliato da cotanto coraggio, libera il giovane aristocratico romano. Da quel momento in poi il nobile assume il cognomen di Scevola, ossia “il mancino” passando alla storia come Gaio Muzio Scevola. E voi, per cosa mettereste la mano sul fuoco?

5. Come il cacio sui maccheroni

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Questa espressione idiomatica è, senza dubbio, quella che meglio incarna la cucina e la cultura italiana. Se qualcosa è «come il cacio sui maccheroni» vuol dire che abbiamo ottenuto, volontariamente o involontariamente, un abbinamento perfetto. A volte, questo "evento" può avvenire in modo del tutto casuale andando a coronare qualcosa in maniera impeccabile. Tuttavia, non necessariamente questa locuzione viene applicata in ambito gastronomico: essa viene utilizzata per il forte potere evocativo.

Il piatto di pasta, genericamente indicato come maccheroni, è la metafora più rappresentativa che possa esistere per un italiano. Il connubio ideale con la “pastasciutta”, tipico piatto dello Stivale: un binomio insuperabile! La spolverata di formaggio associa l’esperienza sensoriale ad un significato più profondo. Si allude a un fatto che capita al momento giusto che dà il tocco finale che rasenta la perfezione. Se vi dicono «sei il mio cacio sui maccheroni» sappiate che è un bellissimo complimento. Sì, forse non molto romantico in quanto a poesia, ma di certo non meno intenso ed autentico dell’amore per una pietanza così speciale…

4. Prendere due piccioni con una fava

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Immagine che richiama l’idea di ottenere un duplice vantaggio da un’unica azione. Quindi, si sottolinea che, con il minimo sforzo abbiamo raggiunto il massimo risultato previsto. Grazie alla fortuna o all’abilità e bravura del soggetto in questione, questo modo dire è certamente legato al mondo contadino. Si fa riferimento alla tipica usanza, vera e propria tecnica, di attirare i colombi attirandoli con delle fave posizionate nelle trappole. I volatili, particolarmente ghiotti di questo legume, abboccano come un pesce all’amo. Per catturare un piccione occorre una fava. Ne consegue che, per catturarne due, avremo bisogno di due fave. In altre parole, riuscire a trarre il massimo profitto da una situazione con il minimo investimento/impegno. Non da tutti, non trovate?

3. Che pizza!

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Contrariamente a quanto si possa pensare, dire «Che pizza!» ha un senso tutt’altro che positivo! Nonostante la pizza sia associata al concetto di bontà e gusto all’ennesima potenza, in questo contesto non è affatto così. L’esclamazione, qui, ha il “sapore” negativo di noia, seccatura, fastidio e scocciatura.

Ad esempio «Che pizza fare la fila!» significa che non è particolarmente avvincente o interessante, anzi che abbiamo fatto una pessima scelta. Se ti senti dire «Che pizza che sei!», ti consigliamo di rimodulare il tuo atteggiamento/comportamento: non è affatto gradito. Ma perché proprio la pizza che, invece, tutto il mondo ama? Probabilmente, l’origine deriva dalla pazienza, nonché dalla noia, di dover attendere il lento processo di lievitazione di un cibo così squisito e appetitoso. Pensandoci bene, però, non è proprio l’atto di attendere a rendere tutto più speciale?

2. Si chiama Pietro... e torna indietro!

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In modo giocoso, il modo di dire «si chiama Pietro … e torna indietro» viene utilizzata quando si presta qualcosa a qualcuno. L’oggetto prestato è da restituire a Pietro, ovvero il legittimo proprietario. Perché Pietro? Indubbiamente, per via della rima azzeccata in italiano (Pietro-dietro). Apparentemente, tuttavia, sembrerebbe non essere l’unico motivo. Vediamo perché.

Secondo la leggenda, l’apostolo Pietro era in fuga da Roma per sottrarsi alle persecuzioni di Nerone. Lungo la via Appia, incontrò Cristo al quale pose la domanda «Domine quo vadis?», cioè «Signore dove vado?». Gesù, dunque, rispose: «Eo Romam iterum crucifigi» (vado a Roma a farmi crocifiggere un’altra volta). Proprio qui e in ricordo dell’episodio, all’incrocio tra la via Appia Antica e la via Ardeatina, sorge la Chiesa del Domine quo vadis o Santa Maria in Palmis. Tornando alla nostra storia, Pietro tornò indietro ed affrontò il martirio con grande fede e coraggio. Non ci è dato sapere quale delle due ipotesi sia quella più veritiera. Se prendete in prestito qualcosa, non dimenticate di renderlo nuovamente a chi ve lo ha dato!

1. Fare il giro delle Sette Chiese

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Basilica di San Paolo fuori le Mura

Questa espressione equivale a "perdere tempo girando senza alcuno scopo" o, più raramente, "andare in cerca di qualcuno che ci ascolti". Le famose "sette chiese" sono le tappe del celebre tour medievale rivisitato e riproposto da San Filippo Neri intorno alla metà del XIV secolo. Si trattava, in realtà, di un pellegrinaggio alle 7 basiliche maggiori di Roma per ottenere speciali indulgenze. A Roma, esiste ancora oggi via delle Sette Chiese che, con i suoi 3 km, collega la Basilica di San Paolo a quella di San Sebastiano sulla via Appia. Tuttavia, senza nulla togliere a questa usanza religiosa, il  detto "giro delle sette chiese" indica sostanzialmente una perdita di tempo senza raggiungere l’obiettivo.  

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