Benedetta Ricci

Benedetta Ricci

Un viaggio tra profumi e sapori dell’Italia preferita dal pizzaiolo migliore del mondo. Franco Pepe, ci racconta i suoi luoghi italiani del cuore. 

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Miglior pizzaiolo al mondo non lo si diventa per caso. Ci vuole coraggio, visione, tanto studio e un pizzico di umiltà. Franco Pepe, 4 volte Best Pizza Chef ai Best Chef Awards, una partecipazione alla serie Netflix Chef Tables e un libro in uscita, è la mente e il cuore dietro al progetto Pepe In Grani, la pizzeria che ha cambiato per sempre il mondo della pizza. 

Da quando ha aperto nel 2012, ha trasformato un piatto popolare in una vera e propria esperienza gourmet, con un impasto di altissima qualità, una cura maniacale nella selezione degli ingredienti e una visione creativa unica, che punta a scomporre e ricomporre i sapori classici. 

Ogni giorno viaggiatori da tutto il mondo arrivano nel piccolo borgo di Caiazzo, nel casertano, dove Franco è nato e dove ha scelto di restare, ed assaggiano la sua pizza: più che un piatto un manifesto dell’eccellenza italiana, dove tecnica, passione e tradizione si fondono in un equilibrio perfetto.

Abbiamo incontrato Franco Pepe per farci raccontare la sua storia, il suo rapporto con l’Italia e con i suoi luoghi del cuore. Ecco cosa ci ha detto. 

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Franco, benvenuto! Iniziamo l’intervista con una domanda che a volte mette un po’ in crisi, ma che per noi è fondamentale: chi sei?

Innanzitutto, io sono Francesco. Oggi tutti mi conoscono come Franco Pepe, ma per me è importante non perdere il legame con Francesco, l’uomo, e non identificarmi solo con Franco Pepe, il personaggio pubblico. Io mi sento Francesco e oggi vorrei far parlare anche lui, mettendo insieme entrambe le identità.

Va bene, Francesco. Raccontaci meglio il tuo percorso. Da dove vieni e qual è la tua storia?

La mia è una storia fatta di farine, di lievitazioni, di pane e di pizza. Provengo da una famiglia di panificatori: mio nonno pianificava già negli anni ’30; durante la Seconda Guerra Mondiale distribuiva pane con la tessera del razionamento. Mio padre ha continuato la tradizione e negli anni ’60 ha aperto una pizzeria. Io sono nato in quegli anni e ho letteralmente vissuto nella pizzeria: era la nostra casa. Il forno veniva usato da papà per cucinare ogni cosa, anche al mattino. Mia madre raramente cucinava ai fornelli, perché usavano sempre il forno. Era una condizione familiare, un tutt’uno con la vita quotidiana. La fiamma del forno mi accompagna da sempre. Non è facile spiegare quanta forza visiva ha avuto per me quella fiamma. È come se l’avessi sempre davanti agli occhi. 

Ho sempre aiutato i miei genitori come potevo. Non facevo la pizza, ma davo una mano. Intanto studiavo: mi sono diplomato all’ISEF, con specializzazione sul sostegno, e per un periodo ho anche insegnato. La mattina andavo a scuola, la sera tornavo in pizzeria.

Poi è venuto a mancare mio padre, all’improvviso. Ci siamo ritrovati io e i miei due fratelli – un architetto, un commercialista e io, insegnante – a decidere se portare avanti l’attività. Abbiamo scelto di farlo. Io però sentivo che il mondo della pizza stava cambiando: gli chef cominciavano a interagire con i pizzaioli, cosa impensabile trent’anni fa. Ho proposto ai miei fratelli di far evolvere l’azienda, ma loro non erano d’accordo. Così ho deciso di uscire dal progetto familiare, ho lasciato l’insegnamento e, con solo le mie idee e pochi soldi, ho iniziato da capo in un vicolo di Caiazzo, con sette ragazzi. 

Oggi in quel vicolo arrivano centinaia di avventori da tutto il mondo, ogni giorno. Che rapporto hai con Caiazzo? Perché hai scelto di restare qui?

Perché amo Caiazzo. Mi sento caiatino e credo che chi è legato al proprio territorio debba fare qualcosa per esso, non fuggire. Ci ho creduto, pur sapendo che sarebbe stato difficile. Ma i problemi ci sono ovunque: a Caiazzo, come a Roma o Milano. Allora mi sono detto: perché non affrontarli? Nel 2012 il territorio aveva l’etichetta di “Terra dei Fuochi”. Ma io ho voluto dimostrare che l’alto casertano, le sue colline, i prodotti locali… meritano attenzione. Ho iniziato a raccontare questo territorio anche nella mia pizzeria.

Cosa significa per te fare turismo attraverso la pizza?

Significa raccontare un territorio attraverso gli ingredienti. Ho progettato la mia pizzeria perché fosse diversa. Qui l’alta cucina si applica alla pizzeria. Trasformiamo la materia prima con attenzione alla salute e alla qualità. Nel 2012 ho coinvolto contadini e un team scientifico – una biologa nutrizionista, un agronomo – per sostenere la filiera. Abbiamo creato una rete.

I prodotti tipici del territorio sono diventati i protagonisti delle mie pizze: il pomodoro riccio, la cipolla di Alife, l’oliva caiatina. Con questi ingredienti racconto il territorio, insieme ad una farina che ho scelto e che non è in commercio, proprio per mantenerne il valore.

Oggi accogliamo 12-13.000 persone al mese. Accompagniamo anche i clienti in tour per conoscere il territorio, visitare caseifici, assaggiare i formaggi. Cerco di offrire un’esperienza totale, che vada oltre la pizza. 

Credo che chi è legato al proprio territorio debba fare qualcosa per esso, non fuggire.

Parliamo di pizza. Ce n’è una che racconta davvero chi sei, la tua storia personale?

Non c’è una sola pizza, ma se dovessi sceglierne una, direi la Margherita Sbagliata. Ho voluto plasmare il simbolo della pizza, la Margherita, in modo nuovo, e l’ho chiamata così proprio per dire: “sto facendo qualcosa di diverso”.

Un'altra pizza che mi rappresenta è la Memento: cipolla di Alife in crema, ceci locali, crema fredda dopo cottura… Ogni pizza è una memoria del territorio. Ma la più significativa per me resta quella di mio padre: il calzone con cicoria cruda. Semplice ma profonda, profumata, emozionante. Non sono ancora riuscito a rifarla come la faceva lui.

Che evoluzione immagini per il futuro ? 

Mi sento soddisfatto del mio percorso. Sono stato insignito di due onorificenzeCavaliere della Repubblica nel 2019 e nel 2020 — e oggi sono riconosciuto ufficialmente come Maestro e figura rappresentativa del settore pizza in Italia. Ho vissuto emozioni fortissime, come la chiamata di Re Carlo per rappresentare il Made in Italy in Inghilterra lo scorso febbraio.

Ora voglio donare tutto quello che so ai ragazzi che non hanno un futuro. Sto lavorando a un progetto in Brasile proprio per aiutare quei giovani per cui l’unica alternativa è l’adozione o l’abbandono del Paese. Voglio che abbiano un’opportunità di imparare un’arte e cambiare vita. 

E la pizza del futuro, come te la immagini ?

Spero che il mio menù funzionale diventi un modello per le pizzerie del futuro: una pizza sana. Ma per arrivarci, dobbiamo formare davvero i pizzaioli. Non si tratta solo di tecniche e impasti, ma anche di conoscenze culinarie. La mia idea è unire sempre di più l’alta cucina con la pizzeria.

Nel mio team ci sono cuochi di pizzeria che lavorano a stretto contatto con i pizzaioli, trasformano le materie prime nel rispetto della loro qualità. Il futuro è questo: un menù che parli di bontà, ma anche di salute. Perché oggi più che mai dobbiamo fare attenzione a ciò che mangiamo. La pizza è uno dei cibi più consumati in assoluto. Possiamo prevenire molte malattie attraverso l’alimentazione. Quindi anche la pizza deve diventare un alimento sano, senza rinunciare al gusto.

Attraverso l’alimentazione possiamo prevenire molte malattie. Anche la pizza deve diventare un alimento sano, senza rinunciare al gusto.

Che rapporto hai con l’Italia?

Ogni volta che vado all’estero vengo convocato dagli ambasciatori italiani: è successo a Bogotá, a Madrid... È bellissimo sentire che, come pizzaiolo, rappresento l’Italia. Il nostro saper fare ha un valore inestimabile. E io cerco sempre di portarlo nel mondo con rispetto e autenticità.

Cosa significa per te la responsabilità nel rappresentare l’Italia all’estero? 

Ogni volta che viaggio, lo sento fortissimo. Non porto solo il mio nome, porto un messaggio, una cultura. Non vado mai all’estero senza le mie materie prime, senza il mio blend di farina. Non accetto mai di essere presente solo come “nome”. Io porto con me il mio saper fare, è fondamentale.

A Caiazzo riceviamo ogni giorno visitatori da 12-13 nazioni diverse. Non parlo tutte le lingue, ma dialogo attraverso il mio impasto. È un linguaggio universale.

Come pizzaiolo, rappresento l’Italia. Il nostro saper fare ha un valore inestimabile. E io cerco sempre di portarlo nel mondo con rispetto e autenticità.

A quali luoghi Italiani sei più legato? 

Appena torno dall’estero, non vedo l’ora di rivedere le mie colline. Ma l’Italia è tutta meravigliosa. La Puglia, per esempio, ha un’identità fortissima, un territorio ricco e materie prime uniche. Ma anche il Trentino lo ho nel cuore. Ho cresciuto i miei figli a Selva di Val Gardena: lì impari che l’acqua non è solo quella nelle bottiglie, ma quella delle sorgenti. E fa la differenza in un impasto.

Io sono continuamente alla ricerca di acque particolari. Ne ho trovata una a Nitrodi, un luogo poco conosciuto con le terme più antiche del mondo. Lì, a 230 metri d’altezza, l’acqua esce a 19°C. I Greci e i Romani la usavano per curarsi. Ho fatto un impasto con quell’acqua, riducendo del 50% sale e lievito. Un’acqua così potente migliora anche la qualità nutrizionale della pizza.

E un luogo del cuore, meno noto, che consiglieresti ai viaggiatori?

Il Matese. I 2.000 metri del Parco Regionale del Matese sono poco frequentati e poco conosciuti. Ma lì trovi pace, trovi sorgenti che danno l’acqua a Caiazzo, Caserta, Napoli. Lì raccolgo erbe spontanee che poi uso nelle mie pizze. È un posto meraviglioso.

Qual è un’esperienza davvero autentica da vivere in Italia? Oltre a mangiare una pizza da Pepe in Grani, ovviamente… 

Andare oltre le classiche mete turistiche e avere voglia di scoprire. Il 99% del territorio italiano è ancora da scoprire. Io, per esempio, ho portato la mia pizza in un resort nel deserto della Basilicata. La grande sfida che ho accettato è quella di portare il mio prodotto dove voglio portare le persone e non dove vanno già, cioè nelle grandi piazze. Al Nord Italia ho scelto di non stare in centro a Milano ma di aprire in Franciacorta, all’Albereta. Cerco di spostare valore e con esso le persone, verso luoghi che potrebbero non conoscere. 


Quello che hai fatto a Caiazzo.

Esatto. Quello che continuerò a fare, finché ne avrò le energie.

L'autore

Scritto il 30/06/2025